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Il desiderio di sapere come fonte di autodeterminazione, intervista alla prof Lucangeli


La scelta della scuola superiore Scalcerle di premiare con 100 euro gli studenti meritevoli, cioè che hanno almeno 9 di media ha diviso la città e ha aperto un dibattito sull'idea stessa di formazione scolastica.

La professoressa Daniela Lucangeli, docente di Psicologia dello sviluppo all’Università di Padova, esperta di psicologia dell’apprendimento, ne ha parlato con il Mattino di Padova


Professoressa, va bene che la scuola punti sul merito e sulla performance dei ragazzi?_

«Non va bene l’ingozzamento cognitivo. Da almeno 8 anni i dati scientifici ci dicono che questo provoca un fenomeno di malessere psichico, una sorta di “mal di scuola”, con sintomi perfettamente riconoscibili nella maggior parte dei ragazzi: demotivazione, ansia, paura, rabbia, insoddisfazione, noia, disistima, tutte situazioni di allerta per il nostro cervello.

La variabile cognitiva che alimenta questo malessere sta proprio nell’obesità informazionale: informazioni su informazioni, su informazioni, come se questo potesse ampliare lo spazio del pensare e dell’intelligenza. Invece crea solo fattori di allerta, rischio, abbandono, assenza di passione e desiderio I nostri studenti dicono basta perché sono saturi. Non possiamo proporre una scuola che aumenta all’infinito il numero delle informazioni».


Cosa rischia uno studente?

«Questo è un problema che ha a che fare con dinamiche profonde: il cosa è desiderabile. Il punto è che non sappiamo motivare i ragazzi al desiderio del sapere come fonte di autodeterminazione».


Perché?

«Perché utilizziamo la verifica e il giudizio come costante ed unico riferimento: nessun adulto accetterebbe mai di essere sottoposto a costante giudizio nel suo lavoro o in qualsiasi altra parte della vita».


Non bisogna valutare la preparazione dello studente?

«La valutazione formativa è un processo educativo. Il giudizio prestazionale continuo è tutt’altra cosa e genera, appunto, un allerta continuo per tutti, bambini e adulti, docenti compresi. Non è questa l’idea di scuola che può potenziare lo sviluppo migliore di ciascuno».


I prof sbagliano a dare voti e, adesso, denaro?

«Dobbiamo essere capaci di vedere tutto. Se ci siamo salvati come Paese, anche rispetto alla pandemia, lo dobbiamo anche agli insegnanti che fanno i salti mortali. Servono nuovi paradigmi, con la ricompensa non si nutrono le emozioni o l’intelligenza. I soldi o i follower sono un rinforzo estrinseco: ti dicono di correre per avere la carota.

I rinforzi estrinseci sono una forma elementare di gestione della motivazione e non sono sufficienti. Anzi, rischiano di essere dannosi perché si sostituiscono alla motivazione intrinseca: il piacere dell’apprendimento, la condivisione dello sforzo con chi ti sta aiutando, l’insegnante.*

Il beneficio genera un’illusione, che il bene il denaro, i follower, la soddisfazione stessa – sia fuori di noi, invece il desiderio deve essere dentro di noi. Altrimenti si crea una dipendenza da altro e non si educa ma si indebolisce. Non c’è autodeterminazione ma eterodeterminazione e viene a mancare il passaggio evolutivo che grazie al quale diventiamo adulti.

Il modello in cui io insegno, tu apprendi, io verifico, non va bene. La rappresentazione di questo modello è la scatola cognitiva che cerca di mantenere quanto più fedelmente possibile le informazioni date, come fossero messe in frigorifero: più le ripeti identiche, più sei bravo. La risposta cognitiva è evidentemente l’apprendimento passivo.

Nulla a che vedere con la capacità di nutrire i processi intelligenti, un flusso interattivo che mette in gioco non solo l’informazione data, ma intercetta anche quello che il giovane sa, le sue mappe cognitive – che comprendono anche gli errori e la risposta che torna indietro è così arricchita di informazioni ed emozioni. Il suo capire e sentire».



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